Zermatt Marathon
Un’altra maratona portata a termine. Credo che sia la diciottesima. Ogni volta, un’emozione diversa. Questa era un po’ una rivincita. Avevo corso la Zermatt Marathon anche due anni fa. Allora, c’erano più di 30 gradi all’arrivo di Riffelberg a quasi 2600 metri di quota. Ero morto. Letteralmente distrutto dalla fatica e dal caldo, svuotato nella mente e nel corpo di ogni energia. Mi ero sentito male intorno al Km 28. Poco più a valle, uscendo da Zermatt, una signora mi aveva dato del ghiaccio che io ho messo nel cappellino, a contatto con la testa. Il gelo, lì per lì, mi aveva fatto piacere, ma poi mi ha provocato una mezza congestione. Avevo cominciato a sentirmi pensante e traballante. Avvampavo di calore. Mi ero seduto su una pietra per raffreddare le temperature di esercizio, come una vecchia carretta che sta per fondere il motore. Mi erano venuti i crampi e da Sunnegga mi ero trascinato al traguardo con una sola idea in testa, anzi, due. Arrivare e ritornare. E l’ho fatto. Quando sono rimasto solo, dopo avere salutato Patrizia e Lucia, e gli amici (Rosa Maria, Bruno, Camilla, Federico e il cane Leon) che come due anni sono venuti a sostenermi, ho cominciato a ripassare il percorso. Era incredibile come, metro dopo metro, potessi ricordare e comparare tutto con una precisione assoluta. L’unica cosa che non potevo prevedere era la storta che intorno all’ottavo chilometro avrebbe potuto rovinare i miei piani. Ho rischiato di cadere, ma soprattutto ho corso fino a Randa, uno strappo di 3 chilometri bello tosto, con un dolore lancinante. Non riuscivo ad appoggiare il piede destro e potevo spingere solo con il sinistro. Non dovevo mollare, non dovevo rallentare, perché se avessi raffreddato l’articolazione, probabilmente non sarei più riuscito ad andare avanti. Ho tenuto e ho continuato a tirare, fino al ponticello del 17° Km, dove si abbandona l’asfalto e si entra nel bosco. Qui sapevo che avrei dovuto rallentare, perché il sentiero è ripido e stretto e non si può fare il passo che vuoi se davanti hai corridori più lenti. Ho camminato nei punti più ripidi, ma ho continuato a superare un gran numero di runner dove la strada spianava e pure in discesa, che non è il mio terreno preferito. Pensavo a due anni prima. Qui stavo già mollando. Questa volta, invece, ne avevo eccome. La caviglia si faceva sentire su qualche appoggio ballerino, ma non era più un problema. Avvicinandomi a Zermatt, la metà esatta del percorso, avevo solo un pensiero: tenere un bel ritmo, sotto i 6 minuti a Km, fino almeno al ventiquattresimo, sfruttando il falsopiano del fondo valle. Tenevo bene i 5 e 30 senza forzare la pompa, che, stando al cardio, stava lavorando sotto la soglia. Alla “mezza” sono passato con 15 minuti di vantaggio sul tempo del 2015 e al 24° il cronometro segnava 2 ore e 21. Ho cominciato ad accarezzare l’idea di potere chiudere sotto le 5 ore. Ma davanti avevo ancora la parte più dura. Ho corso ancora per un miglio. Poi, ricordando l’esperienza passata, ho cominciato a camminare. Ho preso un bel passo che mi ha consentito di alimentarmi senza ingozzarmi, di bere con calma, e di rimanere concentrato senza pensare alla strada ancora da fare, ma “step by step”. Scollinando al Km 30, ho ripreso a correre. Un accenno di crampi mi ha costretto ad alternare passo e trotto per qualche centinaio di metri: il tempo di sciogliere bene i muscoli e di riprendere un ritmo prudente. Ero molto concentrato sui segnali che mi mandava il mio corpo. Nessuna distrazione dal paesaggio. Il cielo coperto che nascondeva la vista delle pareti nord ed est del Cervino ha giocato a mio favore. Ho affrontato con calma il tratto Sunnegga-Riffelalp, un segmento di 6 chilometri e mezzo che è una metafora della vita. La strada è un ottovolante. I corridori sembrano indiani su una cengia ripidissima che scompaiono dietro una spalla erbosa. Il cielo è grigio, minaccia pioggia, il vento ti spinge indietro. La salita è infinita. Dietro la curva c’è sempre salita. Cammini piegato in avanti con la cassa toracica compressa e respiri a fatica. Quando pensi che la discesa possa darti sollievo, arrivano i crampi. E allora la pietraia che hai davanti diventa un incubo. Ogni passo è un passo di una danza fatta di contrazioni muscolari involontarie. Poi, la strada spiana e la vita riprende e sembra pure bella. Ma è un’illusione e ricomincia la lotta. Contro la mente che vorrebbe arrendersi. Contro le gambe che fanno male. Contro ogni pensiero negativo. Ho investito un paio di minuti in esercizi di stretching. Tempo speso bene, perché fino a Riffelalp ho superato tanti runner che mi avevano sverniciato nei tratti più ripidi e dissestati della discesa. Tre chilometri al traguardo. Il tempo di dissetarmi per bene e di telefonare alla Patri. “Sto arrivando, prima delle 2 dovrei essere su”. Km 40, nuovo ristoro. La strada sterrata, in inverno una pista da sci, segue parallela la ferrovia a scartamento ridotto. Sembra già assurdo che un trenino possa arrampicarsi su per quelle pendenze, figurarsi correrci. Eppure ci siamo anche noi, penitenti colorati con lo sguardo a terra e le mani sui fianchi. Mi sono imposto che nessun maratoneta avrebbe dovuto superarmi. Ogni tanto qualcuno mi sfilava. Guardavo i pettorali ma quando vedevo i numeri verdi degli staffettisti e gialli dei “mezzi” maratoneti, provavo sollievo. Km 41. Pochi metri allo scollinamento. La croce assume qui tutto il suo valore simbolico. La strada “spiana”. Ma non è finita. Uno sguardo al cronometro, 5 ore adesso. Provo a riprendere a correre. Una stilettata lungo i polpacci mi fa prendere coscienza del limite. “Tieni, Marchino, tieni. Non avere fretta di arrivare”. L’ultimo chilometro è il più bastardo. Senti la musica, la voce della speaker che incita i finisher. Vedi l’arco gonfiabile del traguardo. È vicino, è lì, ma la strada fa un giro largo, interminabile. Ho saltato il ristoro del km 42. Gli ultimi 195 metri sono in discesa. Dall’alto ho cercato la Patri, la Lucy, gli amici che sono venuti a sostenermi. “PALLAVICINO”. Riconosco la voce di Patrizia. Esulto con le braccia al cielo verso di lei. Dal prato mia figlia Lucia e la sua amica Camilla invadono la pista e tagliano il traguardo con me. Che poi è per questo che si fa tanta fatica. Mi sono dimenticato di fermare il cronometro. Solo qualche ora dopo ho visto il tempo: 5 ore, 10 minuti, 34 secondi, 179° assoluto, 31° di categoria, 2° italiano. Ho migliorato di un cinquantina di minuti, ho dato tutto quello che avevo, fatto la gara che volevo fare. Ora so che non è stata una rivincita. La montagna, la pioggia che non è caduta, la buona salute e la famiglia che ho in dono, mi hanno concesso di vivere questa giornata. Sono profondamente grato di questo.